Bob Dylan, Rough and Rowdy Ways: la recensione del trentanovesimo album in studio del Menestrello del rock.
Bob Dylan è tornato. E, confessiamolo, ci era mancato davvero. Certo, il Menestrello non è più quello di un tempo. Ma non potrebbe essere altrimenti. Oggi Dylan è non solo un cantautore magistrale, un premio Nobel acclamato, un ambasciatore di un mondo culturale diverso da quello tipico della musica folk; oggi è soprattutto un fine dicitore, uno dei pochi in grado ancora di scrivere, utilizzando il citazionismo con l’intelligenza e l’eleganza che lo hanno (quasi) sempre contraddistinto.
Rough and Rowdy Ways è una summa del percorso dei suoi ultimi anni, un disco che si lascia ascoltare serenamente, che ti avvolge e ti coinvolge, rimanendo al contempo attaccato all’attualità ma figlio di un’epoca che non c’è più, e di cui può essere lecito sentire un pizzico di nostalgia.
Bob Dylan, Rough and Rowdy Ways: la recensione
Un capolavoro, due perle, un paio di brani buoni ma non entusiasmanti. Il 39esimo lavoro in studio del cantautore di Duluth, arrivato a 79 anni, non raggiunge l’apice della sua discografia, ma è ovviamente tra i migliori dischi proposti negli ultimi anni dal mercato internazionale.
Si apre con I Contain Multitudes, uno dei singoli già estratti, ballata elegante morbida che sembra essere figlia legittima di Triplicate, la sua raccolta di cover di standard americani pubblicata nel 2017. Il secondo brano, un blues classico proveniente da epoche lontane, si basa su un testo autoreferenziale, in cui Dylan gioca con la sua reputazione.
Lineare e quasi evanescente My Own Version of You, pezzo piacevole ma non indimenticabile, seguito da I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You, altra ballata tradizionale che ci racconta del rapporto diretto tra l’ultimo Dylan e le sue rivisitazioni di Triplicate.
E si arriva quindi alla prima perla del disco, Black Rider, un brano di lugubre eleganza, in cui la figura del cavaliere nero diventa metafora della morte, tema ricorrente nel disco. Spazio quindi a un omaggio a Jimmy Reed, uno dei pionieri del blues elettrico.
Splendida anche Mother of Muses, pezzo in cui Bob vuole cantare un ode ai grandi eroi del passato americano. Altro blues con Crossing the Rubicon, ennesimo rimando metaforico alla morte.
Ma è il gran finale a stupire e a regalare gli applausi più convinti. Key West (Philosopher Pirate) è una lunga ballata acustica di rara intensità, che ci racconta un viaggio verso l’isola posta nel punto più meridionale degli States.
La chiusura, quasi come fosse un’appendice, è dedicata alla lunga suite Murder Most Foul, il primo singolo pubblicato da Bob, dopo otto anni di mancanza di inediti, nel pieno della pandemia. Un capolavoro senza se e senza ma, che già entrato nel novero dei classici della carriera del cantautore più importante nella storia d’America.
Rough and Rowdy Ways: la tracklist
1 – I Contain Multitudes
2 – False Prophet
3 – My Own Version of You
4 – I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You
5 – Black Rider
6 – Goodbye Jimmy Reed
7 – Mother of Muses
8 – Crossing the Rubicon
9 – Key West (Philosopher Pirate)
10 – Murder Most Foul
Top: Murder Most Foul
Flop: Goodbye Jimmy Reed
Voto: 8+
Di seguito l’audio di Murder Most Foul: